Pagoda

“La gente si rivolge a loro con rispetto e reverenza, non dubita mai, nemmeno un secondo, di donare loro parte di ciò che hanno, nonostante l’estrema povertà di gran parte della popolazione.
E’ un meccanismo molto simile all’elemosina della religione cristiana, qui, però, la differenza consiste nella vicinanza, nel contatto, nella presenza mai scontata dei bonzi tra la gente comune.
Non ci sono sovrastrutture o cerimonie:
ogni mattina molto presto, i bonzi escono dalla pagoda e iniziano il loro giro, sono loro ad andare dalle persone e le persone si prendono volentieri cura di loto.

E’ un mutuo soccorso che verte su una semplicità affascinante.”

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Qualche tempo fa, durante un viaggio nelle remote province dell’Indocina, capitiamo a Kampong Sralau, un minuscolo villaggio sulle rive del fiume Mekong, proprio al confine col Laos.
Era stato Yohann a consigliarci di andare sin lì, un signore della Libia che già da svariati mesi stava viaggiando per tutta la Cambogia, innamorato di questo paese, e della sua autenticità.

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Dopo un giorno intero passato a viaggiare attraverso la monotonia delle risaie, cambiando vari mezzi, il mini-van sul quale ci troviamo si ferma, scarica i nostri bagagli e riparte, senza darci il tempo di capire: solamente scorgiamo a sinistra il fiume e a destra una fila di piccole baracche.
Il giorno volge al termine, mentre le persone si preparano ad accogliere l’oscurità.
Curiosi aspettano di vedere le facce di questi due stranieri che per qualche fortuita coincidenza sono capitati sin qui.

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La strada non è asfaltata, piccoli cumuli di polvere rossa si alzano al passare dei motorini, ci rivolgiamo a qualcuno attraverso il linguaggio dei segni (qui nessuno parla inglese, ne tantomeno francese), provando a farci intendere. Cerchiamo solo un posto dove passare la notte, ma non sembra un’impresa semplice. Le alternative sono poche, per non dire nulle. Un senso di disperazione ci coglie.
Un caldo infernale, la stanchezza di un’intera giornata di viaggio e tutta la polvere della Cambogia si fanno più opprimenti sulle mie tempie. Ero ad un passo dal perdere le speranze, poi una parola mi illumina: ” Pagoda“.

Ce n’è una a duecento metri da qui. Così decido di seguire l’ispirazione della docile vocina di donna, e mi incammino verso quel sacro tempio esotico. Entro senza esitare nel cortile e, tra la moltitudine di giovani che animano il piazzale, cerco il bonzo più anziano. E’ lì in fondo, sembra mi stia aspettando da tempo. E’ basso, indossa degli occhiali tondi, dalla montatura sottile, e nonostante la pelle raggrinzita dal sole, mostra ancora i fasci dei muscoli tesi. Provo a parlare con lui, sperando di farmi capire il più possibile.

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E’ stato più semplice di quanto immaginassi, solo due gesti, un sorriso e nessuna parola: potevamo dormire lì, lo spirito del Buddha ci avrebbe accolto… e protetto.
E’ stata una delle notti più emblematiche di questo viaggio.
Ricordo ancora il bonzo che mima con le dita il numero due, porgendomi poco dopo due stuoie e due cuscini, (per me e per il mio compagno di viaggio) indicandomi il punto in cui ci saremmo dovuti sistemare; una rassicurante serenità tornò ad avvolgermi.
Mi sentivo accolta, mi sentivo di nuovo al sicuro.

Ricordo il soffitto e le volte affrescate, il gong in fondo alla stanza e i 7 Buddha che avrebbero vegliato su di noi, quello centrale era più magro e di colore verde. Non ne ho più visti di così.

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Dormivamo lì, sotto il tetto della pagoda principale, senza pareti laterali, solo colonne, statue e affreschi che, a modo loro, ci mostravano la storia del Buddha, e che noi, a modo nostro, provavamo ad interpretare.
Ricordo il pavimento duro e il mio sguardo che spazia verso l’alto, mi immergo in quelle immagini azzurre e gradualmente prendo più coscienza di me, un essere piccolo, all’interno di un sistema molto più grande, universale, fatto di stelle, di geometrie, di equilibri e di luce.

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I bonzi, tutti lì, raccolti in preghiera, evocano mantra salvifici in nome di Buddha, signore dell’armonia.
Guardandoli, mi rendo conto che quel tutto è anche dentro di me.
Mi abbandono ed entro in un altro mondo.

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