Il nostro viaggio in Bahia si rivelò ben presto più verticale di quello che ottimisticamente avevamo pensato all’inizio, e in poche mosse ci ritrovammo addirittura in un Quilombo, ospiti della comunità nera di Santiago do Iguape, nel cuore di una fitta foresta pluviale, al lato del grande Rio Paraguaçu. Ma come ci eravamo finiti a Santiago do Iguape, e soprattutto che cos’era un Quilombo? Nella risposta a questi due quesiti c’è appunto la storia che vi stiamo per raccontare.
VIAGGIO NEL CUORE DELLA BAHIA
La nostra traiettoria era stata più o meno questa: da Salvador, gran capitale di Bahia, ci eravamo spostati verso l’interno, nel cosiddetto Reconcavo Bahiano, a Cachoeira, città storica e importantissimo centro coloniale, e da lì seguendo il corso del Rio Paraguaçu, addentrandoci ancora di più, avevamo raggiunto il piccolissimo villaggio di Santiago do Iguape, dove viveva una loquace comunità di pescatori e dove si trovava isolata nella selva, come una cattedrale nel deserto, la spettacolare chiesa di Santiago. Quest’ultima appariva come una visione sulle sponde del rio millenario, nelle cui acque giacevano le tipiche imbarcazioni lignee utilizzate per la pesca.
LA QUIETE DI SANTIAGO DO IGUAPE
A Santiago do Iguape avevamo trovato una situazione davvero singolare, giacché la comunità locale, distante da Cachoeira appena 1 h 30 minuti in bus, non era affatto aperta al turismo; nella grande piazza centrale c’era solo la piccola e spartana Pousada Tio Pellet (che tra l’altro consigliamo), accompagnata da piccoli e decadenti locali che vendevamo principalmente frutta, pane e verdura. Il silenzio, specie durante le ore del giorno, regnava incontrastato, interrotto solo dall’eco di qualche pescatore o di qualche bambino che giocava in riva al fiume.
Tutto taceva, e la piccola statua di Yemanja ( la venere venuta dall’acqua che per sembianze ricorda la vergine Maria) vegliava sulla tranquillità degli abitanti di Santiago, all’ombra della portentosa facciata barocca della chiesa.
Una quiete tutt’altro che apparente, confermata dalla generale cordialità della gente del posto che, indifferente, ci vedeva attraversare la piazza un po’ incerti e disorientati.
Eravamo gli unici bianchi nel raggio di chilometri, particolare, questo, che sembrava divertire sia noi che loro.
Volti sorridenti, ospitali, cordiali, a Santiago si respirava un’atmosfera di invidiabile rilassatezza, mentre la canicola del dì opprimeva gli unici lavoranti che sembravano fare qualcosa: vecchi pescatori nell’atto di riparare delle reti usurate dal tempo.
Per noi, quel piccolo universo era un ricettacolo di probabili storie e ritratti: così fanciulle dalla pelle ambrata e dai lineamenti gentili e suadenti, uomini dall’espressione allegra e gioviale, donne un po’ matrone un po’ spose, tutti contribuivano a comporre quel caleidoscopio di volti e personalità.
BREVE PREMESSA STORICA
Un tempo, questo posto, non era stato così tranquillo. Ci trovavamo nel cuore della regione baiana, tutt’intorno foresta e… piantagioni di canna da zucchero e tabacco. Era quella una regione di schiavi! Per oltre tre secoli, infatti, il Reconcavo della Bahia, fu una delle località di maggior traffico di schiavi di tutta l’America Portoghese. Gli schiavi arrivavano qui da Salvador, via fiume, per poi essere smistati nelle varie piantagioni. Un complesso socio-economico su cui si basarono intere strategie commerciali, stiamo parlando di una delle prime reti urbane regionali strutturate dell’America Latina. Tra le varie località del Reconcavo, conosciute per la produzione di canna da zucchero su scala intensiva, figurava proprio Santiago do Iguape, appartenente alla regione di Cachoeira, una zona chiave in tutti i sensi.
Per gli schiavi delle piantagioni, la vita non era affatto semplice. Sfruttati senza pietà, fino allo sfinimento, in nome del mero profitto economico. Qualche schiavo, però, si ribellò a questo sistema e riuscì a scappare dalle grinfie dei negrieri, rifugiandosi negli anfratti più remoti della circostante foresta pluviale. Alcuni di loro si riunirono in piccole e segrete comunità, che furono chiamati Quilombo, quilombolas i suoi abitanti. La natura impervia della foresta impedì agli schiavisti di rintracciare i fuggitivi, che chiaramente sarebbero andati incontro a una fine crudele, e con il passare del tempo queste piccole comunità tribali si identificarono sempre più con il territorio, avanzando invano giustamente richieste ed attenzioni al governo centrale. Oggi di Quilombo ne sono rimasti ben pochi, per ovvi motivi, ed uno di questi si trova proprio nei pressi del paesino di Santiago do Iguape.
VISITA AL QUILOMBO
Era stato Kevin, il proprietario della piccola pousada dove alloggiavamo, a parlarci per primo del Quilombo di Santiago do Iguape e della comunità nera che tuttora risiedeva nel cuore di una fitta foresta circondata da mangrovie e acquitrini. Erano questi i discendenti degli schiavi fuggitivi che, a distanza di svariati secoli, continuava a vivere nella più estrema semplicità, solo di pesca e di un’agricoltura di sussistenza.
Noi eravamo molto interessati a conoscere quella realtà, non fosse altro per l’aspetto storico e antropologico che avremmo potuto documentare.
L’unico modo di raggiungere il Quilombo era via fiume, ovviamente accompagnati da Kevin, l’unico bianco che poteva inoltrarsi liberamente tra i quilombolas.
Partimmo di mattina, alla buon’ora, Kevin e io ai remi, Giulia alla macchina fotografica. Scorrere sulle acque del Rio Paraguaçu era un’emozione, un piacere che ci riconciliava con noi stessi. Gli argini del fiume erano coperti da una fitta vegetazione che il nostro sguardo cercava furtivamente di penetrare, mentre la lunga canoa di legno scorreva come un’anguilla furtiva e cacciatrice sulle acque.
Poi Kevin avvistò un piccolo anfratto e mi fece segno di accostare tra le mangrovie. Il livello delle acque, di mattina, è sempre basso, per lo meno ai lati del fiume, così da permettere di inoltrarci nella selva, passando sul terreno fangoso, tra le radici delle piante acquatiche… ovviamente scalzi!
Riconquistammo finalmente il sentiero battuto apprestandoci ad entrare nel Quilombo. Il villaggio era composto da una strada principale, sulla quale si affacciavano capanne di legno e fango, molto semplici. Sull’uscio di ogni capanna, donne dallo sguardo dolce sbucavano come ombre, curiose di conoscere noi forestieri. Nessun sentore di pericolo, anzi, una tranquillità incoraggiante anticipava i nostri passi. Eravamo lì nel massimo rispetto di tutti, totalmente intenzionati a rispettare i valori dell’ospitalità. D’altronde eravamo stati fortunati ad essere accolti nella Comunità, noi, bianchi europei, dall’eco nefasto. E quella fiducia non l’avremmo tradita, avremmo usato la nostra macchina fotografica solo previo opportuno consenso di quella gente tanto cordiale.
Ma tanto, quando le intenzioni sono buone e i cuori sono aperti, tutto è più semplice, così superato l’imbarazzo dei convenevoli, entrammo presto in sintonia con i presenti. Qualcuno, certo, si mostrò timido, qualcun’altro diffidente, in generale però fummo ricevuti con molta cordialità. La curiosità di quella gente era forte, non meno della nostra voglia di conoscere le loro abitudini. Vedevamo infatti che molte delle donne erano sedute su uno sgabello, tutte intente a sbucciare montagne di frutti arancioni. Kevin ci disse che si trattava dei frutti della palma da olio, quelli erano i datteri da cui si estraeva il famigerato olio di palma. Un processo lungo e complesso che iniziava con la raccolta, seguiva con la selezione e finiva con la bollitura, fino a quando il calore non avrebbe dato come risultato un liquido denso dalle tonalità brune e poi fulve.
Noi ci limitavamo ad osservare, a fare domande curiose e, quando la situazione lo permetteva, a scattare ritratti. Immagini di momenti indimenticabili, ritratti, appunto, che rimarranno indelebili nella nostra memoria, grati di aver conosciuto un mondo rurale, a tratti primitivo, pieno di genuina spontaneità.
Come la spontaneità di Doña Inez, così felice di conoscerci da invitarci nella sua umile dimora, per raccontarci come trascorrono le sue giornate di madre, di nonna e di donna.
Dietro di lei, un muro di cemento e mattoni, con un piccolo forno sullo sfondo. Una delle poche abitazioni a potersi permettere questo lusso. Sorride felice lei, come tutta la gente del Quilombo di Santiago do Iguape, che nonostante le continue negazioni da parte del Governo centrale di garantire i servizi minimi, vive serena, sperduta in un angolo remoto di Brasile. Qui si nasce, si vive e si muore con estrema, ma gioviale rassegnazione, perché d’altronde quel che conta è la vita.
Lasciammo il Quilombo dopo varie ore di incontri, confronti e risate, per tornare a Santiago do Iguape e per proseguire il nostro viaggio, sempre più profondo, sempre più verticale. Quello che avevamo visto lì ci aveva arricchito di consapevolezza, una consapevolezza interiore, perché in fin dei conti eravamo fortunati a poter viaggiare e conoscere.