Nel momento esatto in cui il vecchio si lanciò in acqua, alle sue spalle, la barca dispiegò le vele e planò verso nord.
L’uomo al timone fu attratto dal lento movimento delle reti del trabocco che, dalla parte opposta, lentamente, venivano issate dall’acqua, cariche di pesce. Il riflesso argenteo delle palamiti bucò i suoi occhi, come uno specchio che rifrange i raggi solari, e per un attimo non vide più nulla. Quando riprese il controllo della vista, mise a fuoco il mare gorgogliare in prossimità della riva, e nulla più. Contemporaneamente, due gabbiani, volteggiavano sopra l’albero maestro, interponendosi tra le vele e la palla infuocata. Dopo di che si calmò anche il vento.
Lo chiamavano Lu Curnecchie, perché aveva la forma di un piccolo corno. Era una prominenza naturale che dalla costa si protendeva verso l’orizzonte, facendosi bagnare, a volte dolcemente, a volte più bruscamente, a seconda delle correnti, dalle acque verdi dell’Adriatico. Aveva tutte le caratteristiche di un porticciolo, e la sua posizione protetta, a ridosso del promontorio sabbioso, ne faceva il luogo ideale per le attività pescatorie del piccolo villaggio di Viacora.
Z’ Ntonie amava quel luogo in maniera viscerale, lo amava così tanto da perdersi nei suoi misteri. A volte si sedeva lì su quegli scogli, e invece di guardare il mare, si metteva a fissare le barchette adagiate sulle rocce, con aria melanconica e un po’ assente, come di chi sa bene di essere giunto al crepuscolo della propria esistenza.
Per tutta la vita aveva fatto il pescatore; non si era mai sposato, ma aveva cambiato tante barche, molte delle quali erano naufragate in seguito a violente mareggiate, dalle quali, per fortuna, ne era sempre uscito illeso.
Più che a delle imbarcazioni, quelle barchette assomigliavano ormai agli scheletri di cuccioli di cetacei, arenatisi per sbaglio in quel piccolo antro, dopo aver perso la scia della madre.
Z’ Ntonie ci passava gran parte delle giornate a Lu Curnecchie. Abitava giusto alle spalle del grande faro bianco e nero che guarda in direzione della Dalmazia, dalla parte opposta del promontorio.
Si alzava sempre all’alba. Dopo aver mangiato una fetta di pane raffermo, e bevuto un bicchiere di vino, indossava il solito cappello di lana, si alzava il bavero dell’unico cappotto che aveva, e usciva.
Si incamminava lungo la scogliera, con l’andamento confuso e incerto di chi non conosce la strada, ma era solo un’impressione, perché Z’ Ntonie, la strada la conosceva bene, così come conosceva tutti gli anfratti di quel tratto di costa. Erano luoghi selvaggi, primordiali, sui quali aleggiava un senso di mistero non indagato. La natura, con il tempo si era riappropriata dei suoi spazi, avvolgendo ogni cosa con un vorace ghirigoro di liane, rovi e sterpaglie.
Nei giorni di tempesta, il vento si insinuava tra i canneti, sibilando nenie inquietanti.
Il porticciolo era come un piccolo anfiteatro, che compiacente della sua segretezza, si apriva al mare. In pochissimi ne erano a conoscenza, ed erano anni che Zi Ntonie non ci vedeva nessuno.
Quel piccolo angolo di Adriatico giaceva tranquillo nei pressi del centro abitato, lungo la linea di costa frastagliata che culminava con un promontorio roccioso di un centinaio di metri, e sul quale predominava l’imponente rovina di un castello di epoca aragonese.
Un giorno, nel sedersi sul solito scoglio, Z’ Ntonie spostò lo sguardo verso la piccola capanna di lamiera, e vide un bambino giocare sulla spiaggia. Il piccolo, completamente nudo, si divertiva a legare una lisca di pesce attorno ad un paletto di legno, con l’intenzione finale di impalarlo nel terreno. Aveva la mano destra sporca di sangue, e quella sinistra era invischiata con il nylon del filo da pesca con cui aveva provato a legare la carcassa. Voleva liberarsi dal groviglio di fili, ma era impacciato nei movimenti, e più si muoveva, e più rimaneva imbrigliato. Poi mosse di scatto la mano destra verso l’alto, e il lungo filo lucente si fece ancora più stretto sulla sua tenera carne.
Il Vecchio osservò incredulo la scena, concentrandosi sulle mani piccole e paffute del bambino, che si muovevano irrequiete tra la sabbia e le pietre. Nei paraggi non si vedeva nessun’altro. C’erano solo i gabbiani a fendere l’aria e volteggiavano con fare minaccioso, come sono soliti fare i condor della Cordigliera.
Quella visione lo fece tornare bruscamente alla sua infanzia, quando passava intere giornate a giocare da solo con la sabbia. Restrinse le palpebre come per mettere a fuoco la scena. Non era lontano, gli scogli si trovavano a una ventina di metri dalla piccola spiaggia di pietre, ma l’acqua cominciava a incresparsi. Girò lo sguardo di scatto, in direzione della capanna, vide un’ombra velata attraversare la piccola stanza. Si mise a gridare, un urlo nervoso, gutturale, gli uscì dalla gola tremante. Nel frattempo il vento cresceva, il sibilo tra le canne si stava trasformando in un fruscio roboante. Vide un remo di legno appoggiato alla parete cadere a terra, come un giustiziato. Strinse ancor più le palpebre, ma il riflesso del sole sulle pietre bianche glielo impediva. Notò il bambino agitarsi con movimenti sempre più convulsi, e si sentì solo. Si tolse di scatto il cappotto, si tirò via i pantaloni, si sfilò la canottiera di lana, lasciandola cadere tra gli scoglie, e si tuffò in acqua. Doveva nuotare solo venti metri, pensò, ma non aveva forze e perse subito presa. Le sue bracciate convulse andavano a vuoto, dando vita a un piccolo mulinello. In quello stesso momento il mare si gonfiò, lanciando le onde all’interno dell’insenatura. Il garrulo dei gabbiani eccitati coprì le urla del vecchio e i gemiti affannati del bimbo, che ora assomigliavano al verso di un insetto che viene gettato nel fuoco.
Contemporaneamente una barca a vela di piccole dimensioni stava passando non lontano da lì. L’uomo che la manovrava, dopo essersi strofinato gli occhi abbagliati dal riflesso solare, riprese il controllo del timone e guardò ignaro verso nord, in direzione del grande faro di Punta Lancia, che come un gigante si ergeva sulla sommità del promontorio a 35 miglia da lì.
I gabbiani volavano alti nel cielo, sornioni, e non smettevano di garrire.
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