Dice un detto brasiliano che “Nella discesa tutti i santi aiutano”.
Cosa avesse voluto dire questo proverbio, sinceramente non lo so. E forse non lo saprò mai.
Quel che so, però, è che man mano che ci spingevamo più dentro, la nostra discesa si faceva sempre più ripida e i santi sempre più numerosi.
Il Brasile si faceva sempre più profondo, il caldo sempre più intenso, il nero sempre più cupo e la frutta sempre più succosa.
Di fronte a noi forze oscure e primitive incombevano. Da secoli Bahia era terra di schiavi, di morti violente, ma anche di salvazioni e redenzioni e soprattutto di tradizioni. In questo vortice di vite, di popoli e di anime quel che più colpiva era la convivenza di due colori opposti: il bianco e il nero. Tutto pulsava e ribolliva nel grande pentolone della Storia.
BAHIA crocevia di genti e di pulsioni, dove i venti soffiano, i fiumi si gonfiano, le maree crescono e decrescono come un ritornello popolare. Il recôncavo, ovvero tutta la regione interna, pulsava come un ventre gravido, colmo di canna da zucchero e tabacco.
Sullo sfondo, la baia luminosa di Salvador, ammaliante come una gitana, ma ancora lontana.
In un tempo triste, navi europee deportavano dall’Africa intere popolazioni indigene affinché svolgessero lavori necessari ad impinguare le casse dei vari imperi coloniali. Vite sacrificate in nome di un unico grande Dio: il denaro!
Queste navi dopo aver attraversato l’oceano approdavano prima a Salvador, e poi tramite il fiume Paraguaçu giungevamo anche a Cachoeira, a quel tempo tempo seconda città più importante per traffico di merci ed economia.
Alcuni schiavi, però, si ribellarono con grande ardore e fuggirono nella foresta coalizzandosi in piccole comunità: i Quilombos.
Qui, nel grembo di una fitta foresta di palme e mangrovie, riuscivano molto spesso a sfuggire a schiavisti senza scrupoli, riunendosi in villaggi primordiali. A volte, invece, venivano rintracciati e sterminati, affinché servissero da monito severo per tutti gli altri futuri od eventuali piani di fuga.
Il nostro viaggio alla scoperta del Brasile africano era cominciato nel momento in cui avevamo messo piede nello Stato di Bahia, storicamente punto di contatto di neri africani, creoli ed europei colonizzatori.
Tuttavia, non ne avevamo avuto la consapevolezza fino a quando non eravamo giunti a Cachoeira. Qui eravamo entrati in contatto con tradizioni e rituali sconosciuti: l’arrivo, nel corso dei secoli precedenti, di schiavi dall’Africa aveva favorito il proliferare di culti africani, come il voodoo, che alla fine erano riusciti a permeare lo stretto tessuto cattolico.
Da questa fusione era nato il Candomble, una religione che metteva al centro del culto le forze della natura e le varie divinità che ne rappresentavano l’essenza. Non potendo professare liberamente il loro credo, a causa della cruda repressione cattolica, queste genti finirono per venerare le proprie divinità sotto forma di santi cristiani. Il risultato che ne derivò fu un interessante processo di sincretismo religioso. Gli Orixas, ovvero le divinità del Candomble, finirono quindi per assumere la fisionomia dei santi cattolici, conservando però, l’anima delle religioni animiste di matrice africana.
Considerato il nostro retaggio occidentale e cattolico, l’incontro con questa cultura così lontana e ancestrale, minò le nostre certezze, e ci spinse, quasi immediatamente, a trovare una spiegazione a quelle domande che ci si ponevano davanti.
Giulia continuava a provare emozioni e sensazioni contrastanti ed avvolgenti, sin da quando aveva messo piede in Brasile.
Può essere che l’anima di quella terra stesse risvegliando in lei reminiscenze sopite. Inoltre, anche io, stavo affrontando un processo di transizione piuttosto complesso. Per placare la nostra inquietudine, allora decidemmo di ascoltare l’istinto e dar preferenza al nostro lato dionisiaco. Quello apollineo, aveva prevalso per molto tempo nella nostra permanenza in Europa.
La signora della posada in cui dormivamo a Cachoeira, una pittrice argentina un po eccentrica, ci aveva parlato di un Terreiro (ovvero uno spazio sacro) dove viveva e risiedeva, perennemente, Mae Dionisa.
Era una Mae-de-santo (ovvero una sorta di “prete donna” che intercedeva tra la comunità dei fedeli e la divinità). Lei avrebbe potuto liberarci dai nostri turbamenti attraverso il jogo dos búzios, cioè la lettura del presente, ma non del futuro, che avveniva per mezzo del lancio di conchiglie piatte su di una tela candida. A questa pratica ricorrono abitualmente tutti i fedeli del Candomble, per cercare di trovare una spiegazione ai loro dubbi e problemi.
Di fatto non sapevamo a cosa andavamo incontro, ed un senso di timore ci colse poco prima di entrare nella camera sacra di Mae Dionisa. Una forza occulta sembrò avvolgere le nostre menti. Per un attimo brancolammo nel buio, poi per fortuna, mano nella mano decidemmo di rivelarci l’un l’altro i reciprochi stati d’animo e di fare marcia indietro.
Impressionati, quasi sconvolti da quel vortice di emozioni, cominciammo a correre in direzione del centro cittadino, fino a raggiungere la ressa di gente che affollava il mercato domenicale. Quella folla! densa di voci, di vibrazioni e di vita ci rassicurò e la nostra energia quasi si ridimensionò. Probabilmente non eravamo ancora pronti per affrontare il nostro lato oscuro, forse avevamo bisogno di più tempo, avevamo bisogno di viaggiare ancora, di calpestare più strada, di guardare la notte con occhi di gatto.
E allora mi tornano in mente alcuni versi del grande poeta uruguayano Mario Benedetti:
[…] e ti riempi di calma
e riservi del mondo
solo un angolo tranquillo
e lasci cadere le palpebre
pesanti come giudizi
e ti asciughi senza labbra
e ti addormenti senza sonno
e ti pensi senza sangue
e ti giudichi senza tempo
e resti immobile
sul bordo della strada
e ti salvi
allora […]
Il mondo era nostro, dovevamo solo continuare a viaggiare.